È da questo equilibrio, prosegue Gaston Bachelard, che si anima la vivacità febbrile della mano dell’artista. Una mano che, come avviene Carlo Zauli, direi con vigore tettonico, supera quanto Jean Paul Richter considera la prigionia e la passivatà del tatto e, grazie alla immaginazione delle profondità della sostanza, possiede i poemi della qualità “prime” della materia. Superare la “tattalità” significa negare la pura e semplice “utilizzazione” dei materiali per porsi letteralmente all’ascolto del “respiro” quasi abissale e arcano delle sostanze, portando in superficie grazie a una “porosità profonda”, la struttura di quella materia prima che è la terra e dei suoi impasti ideali. Ma bisogno dire che nella ricerca di Zauli c’è una radicalità spesso sconvolgente: l’esplorazione del rapporto di incontro e di scontro dell’immaginario dell’artista con l’immaginario della materia in quanto tale nelle specifiche articolazioni qualitative delle varie sostanze. Una indagine che potremmo considerare quasi “scientifica”, “sperimentale” a dimostrare la non-passività, la non-inerzia creativa della materia stessa con la sua docilità o con la sua resistenza; ma la necessità dunque di reperire i pertugi o, meglio, “un portale di accesso” alle sue dimensioni “altre”, a suscitarne la potenzialità di esistenza, «[…] a cogliere le forme naturali invisibili che respirano e intendono venire in superficie e vogliono essere» (Carlo Zauli). Che aggiunge: «[…] sono un uomo che ama un “grumo” di argilla e che vuole vitalizzarlo, dargli piano piano forma, più vita, esaltando e riordinando i suoi infiniti ritmi e le sue misteriose tensioni che in esso si nascondono».
PIETRO BELLASI, 2015
Anche al più digiuno dei neofiti, appare evidente che la sua ‘scultura’ in grès, quali che siano gli esiti e i rivestimenti di smalto che egli deciderà di adottare, è fondamentalmente concepita attraverso ‘pieghe’, ‘fratture’, ‘deformazioni’, ‘accumuli’ e ‘giustapposizioni’ in cui il ‘vuoto’ e le ‘ombre’ si affacciano come elementi di drammatizzazione della forma e veicoli indispensabili di spazialità.
Se ci si interroga sulle ragioni, come taluno ha sentito la necessità di fare, dell’interesse dei giapponesi nei confronti dell’arte Zauli e viceversa, per quanto – insieme ai molti viaggi, alle mostre nei maggiori musei giapponesi, ai premi ricevuti e alla presenza in importanti collezioni asiatiche – è indizio puntuale, non è difficile presumere che tale attrazione derivi proprio sia dall’essenzialità formale derivata dai gesti elaborativi, non privi di audaci decisioni antecedenti l’introduzione della materia nel fuoco, sia dalle considerazione del ‘vuoto’ sotto l’aspetto di ‘frattura’ o d’altro nella concezione finale dell’opera.
BRUNO CORÀ, 2014
Una fotografia bellissima di Antonio Masotti mostra Zauli, nel 1975, seduto su una distesa di zolle e meditabondo, che rivolge uno sguardo amorevole alla terra. Qui è, al di là d’ogni arzigogolo intellettuale, il punto. L’artista e la sua materia, la sua terra nello spettro tutto delle significazioni dell’espressione, sono una sola cosa, non convenzionalmente uniti da un’identità indissolubile. L’arte è la manifestazione distillata di tale identità. Zauli può accettare di affrontare questa nuova condizione di cecità progettuale, di fabrilità che scopre se stessa nella pienezza del fare, proprio perché salde, saldissime sono le premesse tecniche della disciplina. Se, in altri termini, egli può maturare la scelta di affidarsi alla plenitudine esperienziale del processo, è perché mai rischia di farsene prigioniero, o succube. E scopre, molto scopre in questi anni: che sono quelli degli Sconvolti, delle Flessuosità, delle Zolle, titolazioni tutte emblematiche. In cui sembra dispiegarsi lo spettro degli ulteriori possibili plastici, quelli che egli andrà esplorando nel corso degli anni a venire.Per scommesse espressive e decantazioni, per intuizioni e riflessioni, Zauli giunge a comprendere che la materia chiede forme, perché esse sono figlie dei suoi intimi comportamenti.
FLAMINIO GUALDONI, 2011
Per fortuna, negli ultimi anni qualcosa sta cambiando, nelle giovani leve, ma non solo. Soprattutto per quanto concerne il rapporto arte-natura, quello primario di Zauli, anche se oggi spesso con accenti di reciproca ostilità, assenti nelle stesse sculture dell’artista faentino (i Dadi esplosi, i Vasi sconvolti, dalla seconda metà degli anni settanta) in cui il primitivo controllo formale è agitato, violentato, non tuttavia soppresso. Resta sotteso, in sintonia con l’ordine naturale, non solo e sempre idilliaco e sereno, ma, da allora, spesso tormentato, agitato, in una dimensione appunto naturale, che è poi quella dell’uomo, dei suoi sentimenti, del suo destino.
LUCIANO CARAMEL, 2007
La scultura di Zauli è viscerale. La si percepisce da dentro. Ad un livello tale che si sente il bisogno di fidarsi dell’artista e di arrendersi a lui. I suoi volumi potenti e ampi interagiscono con gli occhi e con la mente, rilasciando allo spettatore una vasta gamma di piaceri sensuali, che provengono dalla danza che lo spettatore compie insieme agli oggetti, mentre l’occhio si muove sopra le loro forme complesse. (…) Così facendo, Zauli riesce ad impartire un ordine al tempo e allo spazio.
GARTH CLARK, 2004
Zauli non si domanda quale forma artistica sia opportuno introdurre nel mondo, ma quale mondo creare con le forme, o comunque quale forma dare al mondo. In rapporto a ciò svaniscono le categorie e le gerarchie culturali, sfuma qualsiasi ipotesi rappresentativa, tramonta la mitologia dell’oggetto. Rimane nella sua singolare e struggente semplicità l’evento della vita, il vivere degli uomini e la loro inesausta volontà di fabbricarsi il proprio mondo, con la terra, con l’acqua e col fuoco. Nello spazio e lungo il fragile confine che separa la luce dal buio.
GIORGIO CORTENOVA, 2002
E’ il laborioso costituirsi dell’opera tra la materia stessa, progetto e processo tecnico, a decidere della sua identità di oggetto plastico significante. Ciò che conferma come Zauli resti fedele alla storia della scultura ed entro questa visione storica interpreti l’attualità. Ancora una volta è dunque il nesso tra natura e storia, se si vuole fra natura e cultura, a costituire il movente. Il principio costitutivo, il riferimento ineludibile dell’opera plastica. Così, determinata da una precisa progettualità e insieme calamitata anche da una visione mitica della natura, la scultura di Zauli insiste su una dialettica, per così dire, dei contrari che ha rappresentato uno dei temi ricorrenti del nostro secolo (…) Ed è come se in questa narrazione plastica Zauli avesse rifondato in un moderno destino formale e in una complessa investitura simbolica, la miticità della materia e la sacralità dei gesti, dei rituali dell’antico vasaio.
CLAUDIO SPADONI, 1998
La metamorfosi della forma in Zauli non può essere avvicinata in modo alcuno alla dissoluzione dell’impulso esistenziale, e insomma al delirio iper-romantico, che abitava in modo tanto variato la stagione dell’Informale. Certo, era difficile che la probabilità così esplicita del “materico” e del “bruto” rifiutasse sempre di passare attraverso il maneggio della creta, pronta a cedere ogni sua virtù strutturale e a liquefarsi, e ancor più a raggrinzirsi, crepare, esplodere in un paesaggio di deformità sublimi.
ANDREA EMILIANI, 1993
Nel suo lavoro i ritmi, le morfologie delle grandi catastrofi naturali vengono inseguiti più da vicino, trascritti o rifatti con grande fedeltà. Sono strati geologici che si incurvano, si flettono, si frangono, al premere di qualche potente soffio di energia vulcanica endogena. In tutto ciò si può cogliere perfino una componente di spirito “giapponese” cioè una variante di quell’atteggiamento contemplativo, pronto a trarre partito dagli spettacoli della natura, senza turbarli con approcci grossolani e importuni, che ormai siamo abituati a ricondurre sotto l’etichetta dello Zen. Evidentemente, Zauli ha scelto da sempre di muoversi nell’ambito di un macro-Zen, o di darci come dei giganteschi Haiku, in luogo dei pochi e aggraziati versi che di solito sono richiesti dalle regole ferree di questo “genere”.
RENATO BARILLI, 1984
Mentre Fontana manifesta la sua geniale ricerca attraverso una gestualità acuminata e simbolica, Zauli ha un rapporto diverso con la storia. Negli anni recenti, per esempio, ha operato in grès una serie di rilievi che collano insieme i corpi spezzati, o schiacciati, di vasi del colore della terra come a dire che quella parete, quella scultura condensa una durata mitica, archeologicamente carica di memorie; Spina e la grande civiltà etrusca sono di casa qui. Le linee della ricerca di Zauli si precisano alla fine degli anni Sessanta: grès modellati come sassi rotolati a riva, scavati, incisi, le superfici porose, a tratti lisce come per interne resistenze di cristalli; poi, agli inizi del decennio seguente, il rapporto tra “forme primarie” e tensioni di crescita quasi naturalistica, forme geometriche e forme ambigue allusive al mito del sesso che sembra uno dei leit motiv di Zauli. Conchiglie, in seguito parallelepipedi spaccati, aperti, dipinti nei fulcri a sottolineare il valore simbolico.
ARTURO CARLO QUINTAVALLE, 1981
Quando Zauli riesce a dar vita alle sue peculiari creazioni, (o creature ?) in grès – dalle tenui nuances bianco-rosa-grigio – è facile intendere come la sua sia una sorta di opus magnum dove la materia greggia si trasforma quasi magicamente in materia sublimata, proprio come avveniva (o avrebbe dovuto avvenire) nella metamorfosi, nella metabolè, degli antichi alchimisti con la riduzione di minerali poveri in oro. Perchè è appunto dall’incontro tra forma e colore, tra terra (allo stato di zolla argillosa), fuoco (il gran fuoco dei 1200¡ come elemento fecondante) e colore, – in cui si traducono le ceneri, le sabbie, le polveri minerali impiegate con una sottigliezza incomparabile – che può prendere vita e diventare duratura e perenne, quella che inizialmente era soltanto la larva d’un’idea, l’immagine ancora impalpabile d’un sogno plastico.
GILLO DORFLES, 1980
Un incontro con le sculture di Carlo Zauli è pura poesia visuale. L’impatto della sua opera colpisce non solo i sensi ma invade il campo totale della psiche. Il suo uso magistrale e immaginoso del mezzo ceramico sintetizza forma, colore, tessitura, volume e movimento in una potente espressione artistica. Sebbene egli si identifichi intimamente con la natura, non c’è mai in lui alcun cenno ripetitivo. Al contrario, egli prende spunti dagli oggetti e dai fenomeni trovati in natura per ampliare la propria conoscenza e consapevolezza della natura. Le forme, geometriche od organiche, sono sempre caratterizzate dalla peculiarità della mano di Carlo Zauli. Le sue grandi forme, quadrate o sferiche, si trasformano in tenere, sinuose espressioni di sensualità che solo la creta può esprimere.
PAUL DONHAUSER, 1977
Da che cosa deriva il fresco senso della materia nell’arte di Zauli? A parer mio esso è dovuto al fatto che questo artista non si oppone alla terra, ma alla terra si adatta, vale a dire plasma forme che ne seguono la vita. Zauli, cioè, invece di comprimere o distorcere a forza la terra, coglie piuttosto, acutamente, la forma naturale invisibile che al suo interno si cela, e la concretizza con vivezza. Anche il fatto che l’opera, mentre mostra un fluire di parti complesse e barocche, possieda unità e ordine classici imperturbati, si può insomma pensare dipenda dalla natura di tale operazione. In un primo momento i nostri occhi si rivolgono alle forme della superficie, dove si incrociano violente asperità, ma poi cominciamo a provare un senso di soddisfazione, come di tranquillità dello spirito, abbracciato nel grembo della natura: e’ proprio questo il motivo per cui le sue opere sono sempre pervase di serenità classica, nonostante le forme barocche derivanti dallo scontro e dalla complessità dei numerosi piani contorti.
YOSHIAKI INUI, 1977
Come sempre, il principio è strutturale, poi il colore e il calore le fanno lievitare ed esplodere: l’alchimia sta nel fatto che tutta la materia diventa massa cromatica, anche in profondità. Crescono, le masse, secondo una legge di virtualità che portano dentro, come il cristallo la legge della cristallografia. Lo strano è che l’energia compressa nella forma si libera nella natura. Quei blocchi di ceramica opaca e splendente (altro che soprammobili!) stanno benissimo sui prati, all’aperto: non hanno paura della natura. Mi rammentano i massi ieratici arenati nei giardini vuoti di Kyoto: sembrano caduti là per caso, invece la loro forma è plasmata dallo spazio trasparente in cui navigano lindi come icebergs.
GIULIO CARLO ARGAN, 1973