Corso per curatori 2018: Nina Bovio
Accademia delle Belle Arti di Bologna
Un a tu per tu di Nina Bovio con Francesco Simeti, attraverso gli aspetti più fondamentali della sua poetica e le influenze dettate dal suo vissuto, che traspaiono attraverso l’opera da lui realizzata durante la Residenza d’Artista al Museo Zauli ed articolata intorno al binomio arte-natura e uomo- natura.
INTERVISTA CON FRANCESCO SIMETI
Francesco Simeti nasce a Palermo nel 1968 ed attualmente vive tra New York e la Sicilia. Si è imposto nel panorama dell’arte contemporanea grazie a sculture, installazioni e interventi di arte pubblica che ha esposto in Italia e all’estero. A Luglio di quest’anno è stato invitato da Matteo Zauli a produrre un’opera tra le mura del Museo dedicato al ceramista italiano Carlo Zauli, utilizzando la particolare argilla nera ancora conservata al museo, eredità del maestro. L’opera realizzata durante la “residenza” dell’artista a Faenza verrà presentata prossimamente ed in attesa di questo momento Francesco racconta se stesso e la sua ricerca.
La prima fase della tua carriera artistica è caratterizzata dall’utilizzo della carta da parati. Quando e perchè hai deciso di iniziare a lavorare con la ceramica?
In realtà ho studiato scultura in Accademia, non esclusivamente ceramica, e quindi i primi anni il mio lavoro fu incentrato sulla scultura. Quando ho deciso di trasferirmi a New York ho fatto questo passaggio alla carta da parati, per ragioni principalmente concettuali. Il lavoro manuale, tridimensionale, però, mi è sempre mancato e la ceramica è stata una sorta di sbocco abbastanza naturale. Ho trovato un corso di ceramica qui a New York, una specie di corso serale, e ho iniziato a frequentarlo proprio per la necessità di tornare a lavorare con le mani. Questo intorno al 2010. I lavori sembravano funzionare anche in relazione ai wallpaper e alle installazioni ambientali. La prima proposta, la prima uscita pubblica con la ceramica è stata nel 2013 ad Art Basel Miami. Da lì l’interesse è cresciuto sia da parte mia che del pubblico e ha acquisito un posto sempre più prominente nella mia produzione. Per i primi anni ho continuato a lavorare nello studio dove facevo il corso, poi mi sono spostato in studio da me, e ho incominciato anche a fare delle cotture a legna in un forno giapponese comunitario appena fuori New York.
Sei nato a Palermo, hai studiato a Bologna e dal 1996 vivi a New York. In che modo e quanto hai portato di queste differenti esperienze sociali, umane e artistiche nel tuo lavoro?
Sono nato a Palermo è vero, però sono per metà americano di nascita. Sono cresciuto in un certo senso con una crisi d’identità. In Sicilia negli anni ’70 il fatto che io fossi per metà americano mi rendeva diverso. L’Italia non era ancora una meta di emigrazione e soprattutto al Sud c’erano solo italiani cattolici. Io ero l’unico non cattolico di tutta la mia scuola e lo sono stato dalla prima elementare fino alla fine del liceo. Ero quindi il più diverso che si potesse trovare. Per me non è mai stato importante definirsi come parte di una sola cultura, e il poter attingere in maniera libera a tradizioni culturali eterogenee è sempre stato, dal mio punto di vista, un vantaggio. Questo essere bastardo in qualche modo è stato un punto di forza. Molte volte nel mio lavoro viene letto il mio essere siciliano per quelle analogie con il barocco siciliano che caratterizzano le mie opere e probabilmente è anche vero. Io credo che un artista sia una sorta di spugna, dove va assorbe ed è innegabile che sia vissuto in Sicilia, abbia studiato a Bologna e che viva a New York. Si assorbe da tutto, per questo si viaggia: per arricchirsi. Come si utilizza questa ricchezza dipende dalle esperienze individuali e da chi siamo. Io assorbo per poi riversare ciò che ho assorbito nel mio lavoro, senza che io me ne renda conto, in maniera del tutto spontanea.
La tua opera si articola intorno al binomio arte – natura e uomo – natura. Come intendi questo binomio e come lo interpreti?
Il rapporto tra l’uomo e la natura è assolutamente disfunzionale, snaturato. L’uomo ad un certo punto ha deciso di essere altro rispetto alla natura. Si considera al di fuori della natura, non si considera parte integrante di un meccanismo, di qualcosa di più grande che è la natura. La guarda dall’esterno. C’è la presunzione di potersi chiamare fuori. Adesso questo sta diventando evidente a tutti però per molto tempo questa problematica è continuata a rimanere invisibile. Nel mio parlare e lavorare con la natura ho sempre cercato di creare una sorta di malessere. Parlare di queste problematiche non in maniera troppo diretta, troppo didattica. Queste mie interpretazioni della natura sono espresse nei lavori che allo stesso tempo parlano di bellezza, la descrivono, però sono anche fuori registro. Spero possano trasmettere una sorta d’inquietudine, di sconforto, di fastidio. Vorrei creare un cortocircuito che possa portare ad avere uno spirito più critico rispetto a questo nostro modo di relazionarci. Far iniziare una riflessione non didattica.
Il tuo percorso di artista è sempre stato improntato anche sulla volontà di porre l’accento sulla consapevolezza delle problematiche attuali. In che modo, dal tuo punto di vista, l’arte può essere propositiva?
Questo modo di lavorare si trova anche nelle mie opere precedenti in cui mi concentravo più esplicitamente su soggetti come la guerra o le migrazioni forzate, quindi delle tematiche che venivano interpretate come più propriamente politiche. Io ho sempre usato questo stratagemma della decorazione per poter parlare di alcuni argomenti che altrimenti sarebbero stati troppo plateali. Troppo didattici e poco efficaci. Ad un certo punto io ho fatto uno slittamento, una traslazione anche se continuo a lavorare su questi temi, soprattutto sulle migrazioni forzate obbligate da guerre e povertà. Quando ci fu l’attacco alle “Torri gemelle” mi è sembrato che si fosse raggiunta una certa consapevolezza e quindi ho iniziato a lavorare scegliendo la natura come soggetto e sul rapporto con la natura perché mi sembrava che questo aspetto fosse completamente trascurato. I cambiamenti climatici, la distruzione della natura sono problemi politicamente urgenti ma di cui nessuno si preoccupa, che nessuno sembra tenere in considerazione. Una delle critiche che mi è stata mossa, quando ho iniziato a parlare della natura è che stavo perdendo il mio ruolo politico, sono convinto invece che il mio lavoro rimane strettamente politico, magari in maniera più sottile.
La tua visione nei confronti dell’azione umana sul mondo naturale, e quindi sul futuro che ci stiamo riservando è ottimista o meno?
Questo tirarsi fuori dalla natura, e considerarsi al di sopra di essa, genera un clamoroso errore che noi pagheremo caro; non capiamo che quando distruggiamo l’ambiente non distruggiamo la natura perché la natura sa reinventarsi. Non sarà la natura a soccombere ma saremo noi, perché distruggiamo ciò che ci permette di vivere. È un suicidio questo non un omicidio. La mia visione è ottimista in senso che sono sicuro che la natura sopravvivrà. Se saremo in grado noi di farlo non lo so, anche se penso che ci sia ancora una possibilità. Io credo che ci sia un auspicio di rinascita, un sopravvento della vita rispetto alla morte, questo è il messaggio che vorrei emergesse soprattutto dalle mie tele di lino con questi fiori giganteschi che nascono dalle tenebre degli sfondi neri.
Che cosa hai portato in questa nuova esperienza artistica dal tuo precedente lavoro in collaborazione con Matteo Zauli per Materia Montelupo? E queste esperienze, quanto pensi influenzeranno le tue produzioni future?
Questo progetto da Matteo lo considero un inizio e un esplorazione che si ricollega ad un aspetto del mio lavoro precedente alla natura, ovvero quello dell’intreccio delle culture e dell’esotismo. Quest’idea di raccogliere foglie ovvero cifre stilistiche decorative che appartengono a culture diverse, in questo mio lavoro sarà solo appena accennato, mi piacerebbe, invece, creare una sorta di alfabeto che interessi un’ area geografica molto grande, che comprenda per esempio Cina, Portogallo, Olanda, luoghi di grandi tradizioni in questo campo. Nell’esperienza di Montelupo in collaborazione con Tuscany Art avevo fatto delle sculture con elementi botanici ma senza quell’aspetto più concettuale. Nella bottega di Sergio Pilastri avevo elaborato a partire dalla collezione del Museo un disegno che è stato poi trasferito su un vaso e un piatto. In fondo il piatto rientra più nel mio lavoro di collage che generalmente mi impegna con i wallpaper. Al Museo invece per la prima volta ho utilizzato immagini trovate nell’ambito tridimensionale, da qui la mia volontà di esplorare più a fondo il soggetto. Sarebbe bello poter creare questa sorta di albero che appartenga a tutti. Il lavoro al Museo Zauli mi è servito proprio a capire questo progetto, credo sia stato un passo fondamentale per la mia ricerca.
Quanto ha influito e in che modo, l’utilizzo dell’argilla nera di Carlo Zauli conservata al museo? Credi che ti abbia creato un particolare legame con la storia, l’esperienza artistica di Zauli, del museo o della città in generale?
L’argilla nera per me è stata un matrimonio perfetto. Ha qualità tecniche plastiche che sono fantastiche. Il colore e l’estetica si prestano moltissimo a questo tipo di discorso. Si crea questa specie di dualismo tra bellezza/vita e decadenza/morte. C’è una sorta di battaglia tra queste due pulsioni, queste due forze. Il nero opaco è molto ambiguo in questa sua natura. Poi il segno di Zauli, pur essendo più astratto rispetto al mio, più naturalistico-organico, lo sento molto affine nelle forme e nel modo di lavorare. È stato sicuramente un vantaggio poter vedere e conoscere di più la sua produzione artistica e poterci lavorare accanto.